silvia alessi

SKIN PROJECT

LE SOPRAVVISSUTE

FOTOGRAFIA

Immagini che sono lezioni di vergogna. Silvia Alessi a Nuoro, per farci conoscere i volti di quelle donne violentate, devastate dall’acido e dalla miseria mentale dell’uomo

Si chiamano Soniya, Roopa, Rimple e Dolly. Hanno un nome anche Neetu, Geeta, Rukaiya e Shabnam. Sono madri, figlie, mogli. Sono donne. Tutte donne. Ci chiedono di non voltare la faccia dall’altra parte. Però “Non chiamateci vittime, ma sopravvissute”. Vogliono essere guardate senza pietismi, ascoltate, perché quello che è successo a loro non debba più succedere.

Ha chiuso pochi giorni fa, il 29 dicembre, l’ultimo appuntamento al PoliFunzionART di Nuoro, con una mostra scioccante, che strizza il cuore, che bagna lo sguardo e zittisce la parola.

Silvia Alessi ha il fisico minuto di un'adolescente e la pugnace volontà di una guerriera. Dall’Afghanistan alla Papua indonesiana, Silvia viaggia, esplora e osserva, e nel 2017 arriva la svolta: decide di andare al dunque delle cose. Sei mesi di preparativi: dalla scelta del tema al chi ritrarre. Si chiamerà Skin Project. «Il desiderio di fondo nasceva dalla voglia di raccontare la “storia della pelle” in India», ci racconta Roberto Tomelleri compagno di viaggi e di vita di Silvia. «L’idea era quella di mettere insieme le persone albine, profondamente discriminante per il colore della loro pelle, con le donne sfregiate dall’acido».
Silvia Alessi La mostra SKIN PROJECT negli spazi espositivi del TEN a Nuoro Cosa succede a quelle latitudini, perché questa pratica abominevole?
«Questo tipo di violenza è tollerato non solo in India, ma anche in Pakistan e in Bangladesh. Gli acidi li puoi trovare facilmente. Sono in vendita ovunque. Umiliarle, annichilirle: con l’acido è possibile uccidere dentro, pur lasciando in vita. Le donne in questo modo sono costrette a nascondersi a tapparsi in casa, a vivere questa nuova condizione con vergogna. Molte di loro non sporgono denuncia. E poi c’è l’aspetto fisico: la cosa grave è che, se non si interviene subito recandosi all’ospedale, si rischia la vita. Infatti l’acido continua la sua azione penetrando nella pelle. Se non si interviene entro 24 ore si muore. Questo è un crimine, nel 99% dei casi, commesso dagli uomini contro le donne. Ma abbiamo anche incontrato il caso di una donna che ha usato l’acido contro un’altra donna. Le cose però stanno piano piano cambiando. Esiste una nuova generazione di donne molto forti che hanno deciso di non nascondersi. Questo ha aiutato Silvia a trovare un’intesa con loro. Alla fine erano loro ad avere voglia di raccontarsi. Volevano che il mondo sapesse. Forse se il mondo conoscesse questo problema le cose potrebbero cambiare. Forse i governi di questi paesi potrebbero introdurre delle pene più severe nei confronti di questi crimini».

Albini e volti sfigurati, dolore che erompe dalle inquadrature: Silvia, come è stato l’incontro e l’approccio al medium fotografico con queste persone?
«Fotografare le persone albine è stato molto più complesso che fotografare le donne bruciate dall’acido. Gli albini sono molto timidi e sospettosi. Dovevo stare attenta a come sorridevo, perché per loro il mio sorridere poteva essere letto come uno scherno. E poi c’è il fatto che hanno problemi di vista e non capivano quando e come guardare in camera».

Dove le hai ritratte e come le hai incontrate?
«Ad Agra, città nel nord dell'India c’è Sheroes' Hangout, un caffè interamente gestito dalle ragazze sfregiate dall'acido. È lì che mi sono ritagliata un angolo per poterle ritrarre. Parlando con loro ho incontrato anche le loro storie. Ci sono delle dinamiche sociali e culturali a noi incomprensibili. Come il caso di quel padre che rientra a casa ubriaco e lancia addosso l’acido alla moglie a alla figlia. Lui trascorre un periodo brevissimo in prigione per poi far rientro a casa. Le due donne lo perdonano e oggi vivono di nuovo tutti insieme, sotto allo stesso tetto. O come la storia di Roopa. Suo padre che si risposa con un’altra donna. Quest’ultima, forse per gelosia, sfregia Roopa con l’acido. Suo padre chiede esplicitamente a Roopa di non denunciare la moglie altrimenti si sarebbe suicidato. Ma c’è anche quella di Soniya, corteggiata dal suo vicino di casa. Lui le regala un telefonino. Quando Soniya scopre che il telefono è stato rubato decide di andare a denunciarlo. Lui si è vendicato lanciandole addosso un flacone di acido».

Chiude la mostra, ma non l’invito a non perdere il fuoco sul problema. E proprio sul sito di Sheroes’ Hangout, il caffè di Agra dove Silvia Alessi ha incontrato queste donne, campeggia un inciso, un monito che ci accompagna a continuare a riflettere: “La bellezza esteriore è passeggera. Siamo state capaci di superare la rabbia e il dolore. Crediamo che essere belli dentro sia più importante. La vera bellezza che dura per tutta vita. Che cosa farai se sei solo bella fisicamente? Anche quelli che ci hanno lanciato acido erano belli visti da fuori. Giusto?”



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