Copertina di Diego Di Niglio

DIEGO DI NIGLIO

IL SILENZIO ASSORDANTE

REPORTAGE

“Il suo corpo era avvolto da una corda di medio spessore più volte arrotolata attorno al collo. Il suo volto era sfigurato dalle tante violenze sofferte, presentando graffi e ematomi profondi. Il cranio riportava i fori di tre colpi di arma da fuoco, esplosi a bruciapelo”.
Al PoliFunzionART Diego Di Niglio racconta la politica della dittatura.

Nelle sue immagini l’aria ancora puzza di cordite e di paura. Come si racconta la sofferenza? Come si può imprimere in un fotogramma l’assenza, il non esserci più per qualcuno, lo scomparire per sempre? Come si racconta un Golpe?

Diego Di Niglio ci ha provato con un biglietto di sola andata verso il Brasile. Ha percorso le sue regioni, incontrato persone, indagato il dolore di una dittatura militare che dal ‘64 all’85 ha fatto cenere di tutto, nel Paese più grande dell’America Latina.

Un’avventura umana e un progetto dal titolo enigmatico: P41311: «Il nome nasce dal numero di prontuario dell’arresto di Gregório Bezerra - spiega Di Niglio - una delle figure più emblematiche e una delle pagine più clamorose degli anni della dittatura. In quella cartella ho ritrovato le sue foto realizzate al momento dell’arresto. Due scatti distinti per due momenti della sua storia. Il primo arresto nel 1935 e il secondo avvenuto nel 1964, pochi giorni dopo lo scoppio del Golpe».

Come nasce l’urgenza di raccontare quella dittatura?
«Nel 2013, da un libro universitario che si intitolava Marcas da Memoria: historia oral de anistia em Brasil, "Storia orale dell'amnistia in Brasile". Pagine che investigavano sulla storia e le sofferenze di persone che avevano partecipato alla resistenza contro la dittatura. Da lì nacque la mia idea di fare una storia orale, una narrazione per immagini».

Raccontare per non dimenticare?
«Sono stato sempre attratto dalle questioni legate alla memoria, e in particolare alla memoria collettiva. La fotografia come strumento di indagine per la memoria e non come registro del presente. Credo che questo sia un tema gigantesco, dove si naviga nelle sensibilità delle persone. Mi sono sentito proiettato dentro a questa storia e mi è capitato spesso di interrogarmi e pensare: se fossi nato qui e non a Milano probabilmente sarei finito qui, dentro a questo tritacarne».

Tutto questo in una mostra e un documentario.
«In realtà, nella mia idea di partenza, questo progetto nasce come un libro e non come un'esposizione. Un libro prodotto in mille copie, metà delle quali distribuite gratuitamente anche nelle scuole, nelle università e nelle associazioni. Il documentario è nato durante gli incontri con le persone. Iniziai a filmare a fare interviste e a dialogare con le persone. Piano piano la cosa ha preso la forma di un lungometraggio. Quando lo presentammo al cinema arrivarono 1200 persone. Nessuno si aspettava tutto quel pubblico. Ci fu un’ovazione, quasi un tifo da stadio. Era un lavoro che doveva tornare indietro, non un oggetto da scaffale».
diego di niglio Nuoro - Diego Di Niglio, davanti ad alcune immagini della sua mostra Un enorme lavoro che hai portato avanti da solo?
«No, lo abbiamo sviluppato a quattro mani insieme al mio amico Pablo Porfirio, professore e ricercatore di Storia dell’Università Federale di Pernambuco. Io mi occupavo delle immagini, poi le passavo a lui che da quei fotogrammi ne tirava fuori dei racconti. Il suo lavoro sui testi è stato fondamentale. Ha cercato di andare oltre le biografie, come in un grande puzzle ricostruito attraverso la storia della vita di queste persone. Non volevamo niente di didascalico, anzi. I testi dovevano emozionare».

Spesso l’essenziale nelle fotografie è fuori dall’inquadratura, come in questo caso: il volto di una donna velatamente trasfigurato da qualcosa tra lei e il nostro sguardo.
«Si tratta di Anatália de Souza Melo Alves. Aveva 28 anni. Morì il 22 gennaio del 1973 alle ore 17.15. Ai giornali fu rilasciata una versione “ufficiale” dell’accaduto. Dissero che si fosse recata in bagno per darsi fuoco agli organi genitali e subito dopo avesse utilizzato la tracolla della sua borsa per impiccarsi. In realtà furono i suoi torturatori, quelli del Dipartimento di Ordine Politica e Sociale di Pernambuco, a simulare il suicidio per mezzo di impiccagione con la tracolla della sua borsa. ll corpo venne seppellito nel cimitero di Santo Amaro senza dare notizia alla famiglia».

Tante persone, tante sensibilità incontrate. C’è qualcuna di queste storie ad averti colpito più di altre?
«È difficile scegliere perché c’è moltissima emozione in tutti questi incontri. Una in particolare? È stata quella dell’incontro con Dona Elzita Santa Cruz (nella sua immagine il volto non viene mostrato. Sono visibili solo le mani che stringono un fiore), madre di Fernando. All’epoca del nostro incontro aveva superato i 100 anni. Una donna consumata dall’Alzheimer. Sapendo che mi sarei recato da lei si era messa l’abito migliore. Stava seduta sul divano. L'altro figlio Marcelo, la persona che mi ha permesso di conoscerla, le chiese di recitare una poesia. Una poesia, di cui tutti ignoravano l’origine, che parlava di una madre che aspettava il ritorno di suo figlio. Non ricordava più nulla, ma quella poesia la recitava perfettamente».

Dona Elzita Santa Cruz, che il 16 ottobre di quest’anno avrebbe compiuto 106 anni, si è spenta il 25 giugno scorso senza aver mai potuto dare una degna sepoltura a suo figlio Fernando.


Chi era Fernando Augusto de Santa Cruz Oliveira?

Era sabato di Carnevale dell’anno 1974. Fernando, che viveva a San Paolo, con sua moglie Ana Lúcia e suo figlio Felipe, viaggiò a Rio de Janeiro e si ospitò nella casa di suo fratello Marcelo, a Copacabana. Nel pomeriggio di quel giorno, uscì per incontrare il suo amico e compagno di militanza Eduardo, allertando la famiglia che, se non fosse tornato entro le 18, avrebbe significato che era stato sequestrato. Fernando non rientrò. Scomparve.
Elzita Santa Cruz, sua madre, iniziò una ricerca sul suo destino presso caserme, organi di sicurezza e sedi del governo militare. Interpellò autorità politiche e religiose. Scrisse lettere. In una di queste, diretta al maresciallo Juarez Távora, nel maggio del 1974, tre mesi dopo la sparizione di suo figlio, diceva:
Sono passati tre mesi. Non sappiamo quali sono le accuse che pesano contro Fernando. Di quale reato è accusato? Il mio amato figlio è anche marito e padre. Cosa potrò dire a mio nipote, quando sarà cresciuto, e mi dovesse domandare che fine a fatto suo padre, se non avrà la felicità di vederlo ritornare? Dirò a mio nipote che suo padre è stato giustiziato senza processo? Senza difesa? Di nascosto e per un reato che non ha commesso? Dov’è mio figlio?
Fernando è stato sequestrato dalla polizia politica. È un desaparecido politico della dittatura militare brasiliana. Sono passati oltre 40 anni e lo Stato brasiliano non ha ancora risposto alle domande.
Il silenzio é assordante.

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  • Diego Di Niglio - P14311
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