GRETEL
I RACCONTI DI ANGELICA GRIVEL SERRA
“Gretel, non vai bene”. Lo sillaba con distrazione, quasi senza assumere appieno la consapevolezza delle proprie parole. La occhieggio, lei non ricambia lo sguardo neppure per inerzia.
Mi stupisce come non cerchi perlomeno lo sforzo di un ‘mi dispiace’ o di un qualunque alibi a giustificare la sua sentenza recisa. Annuisco, comunque. Stringo la faccia nella malcelata stizza di un sorriso contratto, come a lasciar intendere un accettare supino della sua affermazione. Non penso di adoperare l’arma di una replica insidiosa dettata dal tempismo. Rimpiango che non mi appartenga la brillante capacità di rispondere con la celerità dell’impeto istintivo.
Torno a lei, mentre mi svesto a fatica di queste scarpe dal tacco sottile e affilato, di un insolito velluto dalle tonalità verde bottiglia scuro, quel nodo a fregiare la caviglia arduo al districarsi come un bullone. Decido che detesto questo paio di inutili sandali.
All’improvviso mi sovviene la marea dei perché che mi tempestano la testa. Perché sono qui, ad esempio. Perché è andata proprio come temevo? E perché ho pensato per così tanto tempo a chissà quale finale diverso?
È stata lei a scoprirmi. Sono certa che la nostra è stata una conoscenza del tutto inopinata, frutto forse di un suo vagolare di pagina in pagina nell’ampiezza disorganica del mondo virtuale. Su Internet, lei cela di proposito la risonanza del cognome noto, inconfutabilmente associato al marchio di cui è stata pioniera ormai vari decenni fa. Eppure, ora lei sembra aver rimosso dalla memoria tutte le nostre conversazioni, il mio pormi verso lei sin dal principio. Forse addirittura si è del tutto dimenticata della mia presenza, del biglietto aereo che ha preteso di pagarmi per raggiungerla qui, data la mia estraneità a una qualunque agenzia di moda milanese. Da parte mia, tutto è saldamente custodito nella mente: dal suo impatto più primo nei miei confronti, avvenuto tramite una sua condivisione di una mia fotografia, tratta da uno dei miei portali online, alla convocazione entusiasta per un incontro; dalla mia visita qui tramutatasi in una decina di sconcertanti minuti di casting non previsto, sino al nostro mesto epilogo, appena sorto.
Mi sporgo appena dall’uscio stretto. Là nella hall d’ingresso, le vedo da qui, immote come tanti lunghi e sottili edifici, ci sono otto ragazze in attesa. È raggelante, la silente pazienza che irrigidisce i loro corpi e i loro movimenti. D’altronde, il mio congedo è la loro carta d’imbarco. Fuori una, forse c’è una possibilità in più per me: questo è il pensiero che mi sembra di vedere sorgere su tutti i loro visi. Il richiamo atono che striscia dicendo di volta in volta sempre quello stesso ‘la prossima’ è la loro occasione.
Hanno tutte un book, la loro personale raccolta selezionata di fotografie. L’espediente collaudato per affittare al meglio la propria immagine al potenziale acquirente. Altre quattro mi hanno preceduta: questo sbrigativo susseguirsi di individualità accalcate sino all’annullarsi mi deprime in un modo che mi trova amaramente stupefatta. L’esacerbato sfoggio del vano e pomposo lusso che alberga in ogni dettaglio accentua il mio disappunto, accasciandomi definitivamente l’umore.
Una delle ragazze, l’ultima ad aver lasciato la sala, il nipponico liscio nei tratti del viso punteggiato di piccoli nei composti, sembrava vestita d’impassibilità. Ho posato la mia attenzione di sottecchi su tutta la prova a cui è stata sottoposta. Quella che al mio occhio inesperto è parsa una camminata ineccepibile si è svelato un passeggiare goffo, sorprendentemente fallace, a detta della donna; il suo torreggiare spudoratamente esile su quello che viene classificato come metro e settantotto non stupisce per nulla, così come l’incarnato lunare: anche quello non convince il gusto inflessibile della stilista, tanto che lo ha definito ‘scialbo’.
L’ho vista chiudersi la porta dietro di sé, questa ragazza sconosciuta che, all’intransigenza del no della donna, non ha opposto proteste, a dimostrare la sua esperta assuefazione alla dinamica del diniego. Semplicemente, il book in una mano e una miniatura di mela verde nel pugno dell’altra, le è uscito dalle labbra sottili un inudibile arrivederci, accompagnato dal suono della porta che frusciava. Ho tentato un frettoloso contatto solidale con lei, ammiccando gli occhi in quello che voleva essere un sorriso pieno di complicità, senza trovare risposta nel deserto muto delle sue iridi.
L’anziana stilista si affezionò a una mia immagine. Per questo mi volle conoscere, e il suo veemente entusiasmo contagiò le mie fantasie: mi aveva fatto intendere, da certe divagazioni accennate nelle chat della prim’ora, un ragionare su un progetto fotografico o su una campagna pubblicitaria con me protagonista. D’altronde, quale altra mansione avrebbe potuto affidarmi? Io glielo ribadivo: non sono una modella da sfilata. Non ho l’altezza per dedicarmici e a dirla tutta non ne ho neppure l’ambizione. Vengo apprezzata per la personalità che emerge dalla mia faccia impressa sulla pellicola.
Ma niente. La sua stolida fermezza, permeata di quell’arroganza consacrata dal ruolo, mi liquida in quanto sbagliata.
La scruto dalla mia posizione protetta.
A vedersi, si direbbe che sia identica a una paperella di gomma, di quelle un po’ inquietanti che dilettano i bagnetti in vasca dei bambini. Ravvedo questa somiglianza praticamente in tutto, dalla pelle del viso terracotta del tutto protesa verso l’alto, nel vano tentativo di arrestarla ad un’età che ha conosciuto la dissoluzione ormai da tempo, al prognatismo delle labbra, che lei tiene ostinatamente semiaperte, in una posa di costante stupore sciocco. Il suo elevarsi verticale è vertiginoso e pare quasi accentuato dalla secchezza legnosa delle forme. Un fascio di lunghi e profondi raggi bianchicci le attornia ciascuna palpebra, contrassegno evidente della sua convivenza di una vita col sole estivo più violento. L’originario bruno intenso dei capelli lisci, oggi naturalmente slavato, e la frangia strategicamente plasmata a bendare la forma della fronte bombata, sono i soli elementi a testimoniare una certa rassegnazione alla morte della giovinezza.
Mi affiora d’istinto un sorriso malinconico e beffardo, nel ravvisare in lei i tratti di una nonna Abelarda dei miei fumetti infanti e l’incongrua perfezione di un casco di capelli oro metallizzato dall’aria artificialmente giovanile, a coronarle il volto.
Ripongo su uno scaffale casuale quel paio di scarpe sulle quali il mio impegno di non barcollare dev’essersi ridotto a una smorfia sul viso, prima, quando lei mi ha domandato un accenno di passi in stile sfilata. Persino la cerniera di questo abito, alla cui vestizione son stata forzata dalla donna, rifiuta di obbedire all’impazienza delle mie mani che cercano vanamente di mandarla giù.
La forma a tulipano non agevola di certo nel lavoro di valorizzazione del mio corpo tutt’altro che assimilabile alle vette sottili delle altre ragazze, quelle sì, le modelle vere.
Ci vado cauta, però: la sollecitudine che lei non riserva agli esseri umani schierati al suo giudizio è riposta in maniera accorata su questi vacui orpelli, ancorché in serico velluto.
Infine, comunque, ci riesco. E torno ad occupare i miei, di panni, nei quali, non appena li indosso, mi sento come affondare in una stretta piena di conforto familiare.
Penso a quanto possa risultare tremenda, la pressione generata da un semplice paio d’occhi, soprattutto se di essi non conosco il grado d’amore o collera negli sguardi che son soliti scagliare. I suoi, di un azzurro fumoso e opaco, solo in quel momento li ho visti ardere di un che di vivo: inquisitori e spietati, perlustravano la mia proporzione corporea, rovistando tra i miei arti, a sondarne le ampiezze; le fameliche pupille impegnate nel ridurre a misura tutta la complessità di me.
Eppure, davvero stavolta io ci credevo: mi nutrivo della scarna speranza che lei, nonostante la sua naturale inclinazione allo sventato, mi avesse riconosciuta in quanto personalità.
Ma no. La sintesi dell’andamento dell’incontro è solo quel gracchiato “Gretel, non vai bene”. Mi chiedo perché mi chiami Gretel. Poi, realizzo: chiama tutte per nome. Non c’è in lei lo sforzo di definirci, completando le nostre identità chiamandoci anche per cognome. Nel mio caso, addirittura, distorce il mio, di cognome, tramutandolo in un appellativo improvvisato. La negligenza imperdonabile del suo chiamarmi Gretel saccheggia ogni mia volontà. Non pretendo che mi legga dentro. Ma perlomeno che legga bene il mio cognome.
“E comunque è Grivel. Non Gretel.”
Angelica portrait cover by Andrea Ferrario.
Angelica Grivel Serra
18/10/2019