GIAMPAOLO BISANTI
INTERVISTA
«Il nostro dovere è quello di far emozionare lo spettatore» L’incontro col direttore d’orchestra che fece sognare pubblico e Turandot nell’opera megalitica di Sciola.
Cosa accomuna un dipinto, una statua e una immagine stampata? Non sono solo il frutto di tre distinte forme d’arte: pittura, scultura e fotografia. Queste tre rappresentazioni esistono grazie al fatto che possiamo osservarle. Possiamo guardarle con i nostri occhi.
È il 1824 quando, un ormai completamente sordo, Beethoven porta a compimento il suo capolavoro assoluto:
la Sinfonia numero 9. Un anno prima, in Spagna, il Goya completa la più inquietante delle sue “pitture nere”:
Saturno che divora i suoi figli.
Ora immaginiamo che, al posto di questo grande olio su intonaco, il pittore spagnolo ci avesse lasciato una “partitura”.
Un manuale dettagliato di come realizzarlo. Di come portarlo in scena.
Con la musica classica è stato fatto esattamente questo.
Oggi a mettere insieme pennelli e colori, strumenti e armonie, sono loro: i direttori d’orchestra.
Sulle tracce di quelle note, sugli appunti scritti sul pentagramma ridanno vita a quella musica che chiamiamo “classica”.
A sdoganarla da quella patina di sacro ed elitario e dalla facilità, sempre in agguato, di cadere nel tedio, il maestro Giampaolo Bisanti racconta questa musica con una vitalità e con una semplicità davvero disarmanti. È capace di spiegarti la Bohème e subito dopo passare a una delle partiture di Mozart facendoti entrare dentro la vita di quei mondi e di quelle opere, prendendoti per mano.
Il suo rapporto con la Sardegna inizia nel 2013. Un viaggio che lo porterà a dirigere, a Cagliari, l’Otello di William Shakespeare.
Esattamente un anno dopo la sua bacchetta guida tutte le rappresentazioni della straordinaria Turandot insieme a Pinuccio Sciola .
È il febbraio di quest’anno quando, al Lirico di Cagliari, Giampaolo Bisanti impalca da prima l’Ottava Sinfonia in Fa maggiore op.93 di Beethoven seguita poi da una emozionante Ottava Sinfonia in Sol maggiore op. 88 di Antonín Dvořák.
«Io mi sento molto a casa, in questo teatro e in questa città», ci dice.
«Qui mi sono sentito immediatamente avvolto da grandi professionalità, gente molto sincera e ospitale. In particolare questo rapporto elettivo che ho sviluppato con l’orchestra e con il coro del teatro lirico di Cagliari».
Le buone maniere sono moneta ormai fuori corso. Ecco perché a parlare con il maestro Bisanti hai sempre l’impressione di avere davanti a te un gentiluomo di un’altra epoca. Sempre garbato, sorridente, umile e mai fuori posto.
Giampaolo è il primo di 11 figli. In mezzo a questa torma di famigliari l’economia domestica non è solo una virtù, ma soprattutto una forma di necessità:
«I miei mi hanno insegnato a mangiare tutto quello che avevo nel piatto. A non sprecare nulla».
Il compito della musica è quello di unire l’uomo, l’oggetto e l’atto. Unione riuscitissima.
Quando il maestro Bisanti si cala nel golfo mistico, porta con se la sua personale impronta direttiva, ma nel rispetto di un eredità spirituale:
«La vera sfida diventa quella di far rivivere quello che è scritto su un foglio. Non c’è niente, c’è un segno.
La semiologia, lo studio del segno». E se Herbert von Karajan dirigeva spessissimo a occhi chiusi, Giampaolo Bisanti guarda negli occhi ogni singolo componente dell’orchestra: persone che si fondono con il loro strumento. Le espressioni del suo viso si fanno intense, impetuose come acque che scorrono in una forra.
La bacchetta si trasfigura in quella del mago, dello stregone.
Ogni gesto, ogni movimento delle braccia, serve a mettere insieme suoni ed emozioni. Sensibilità.
Hai davvero l’impressione che si stia portando a compimento qualcosa di magico, di mistico: «Quello che deve arrivare al cuore dello spettatore, dell’ascoltatore, è l’apogeo di tutto quello che ha scritto il compositore. Il nostro dovere è quello di far emozionare lo spettatore».
Ora mettiamo da parte la bacchetta. Allontaniamoci dalla fossa e dall’orchestra. Portiamo Giampaolo lontano anche dalla sua moto (altra sua grande passione) per incontrarlo, come piace a noi, davanti a un buon bicchiere di vino:
Giampaolo in tre aggettivi:
Ambizioso. Onesto. Pragmatico.
La tua vita in un film: a chi affideresti la regia?
Woody Allen. Perché i miei trascorsi di vita non sono seriosi come qualcuno potrebbe immaginare, ma sono stati anche molto inconsueti e buffi. Già partendo dal fatto che ho avuto 10 fratelli si può capire immediatamente che ho avuto una vita “anomala” un po’ diversa dalle altre (ride).
Il brano musicale che farebbe da colonna sonora?
Da pinkfloydiano accanito penso a: Shine On You Crazy Diamond.
Se fossi un mese dell'anno?
Probabilmente il mese in cui sono nato: luglio.
Cosa è IN cosa è OUT?
IN è l’amore per il prossimo e la nostra Terra. OUT è l’intolleranza verso gli altri.
Il tuo motto?
Il mio motto è stato scritto da un altro. Platone diceva: l’uomo senza arte arriva come uno storpio alla fine della sua vita.
Cosa è per te l'Italia?
L’Italia è quel piccolo pezzo di terra in questo mondo che ha dato vita ai più grandi geni dell’umanità.
Cosa è per te la musica?
La musica è la più grande forma d’arte. Di tutte le forme d’arte è la più imperscrutabile, la più metafisica, ma anche la più vicina all’animo umano. Quella che lega la nostra materialità a quel qualcosa che ci ha creato.
Un oggetto romantico.
Vorrei dire la mia moto… Un bel cuscino rosso!
La parola che vorresti abolire dal vocabolario?
Invidia.
Il film che più di tutti abita il tuo cuore?
Romeo e Giulietta di Zeffirelli.
L’Opera teatrale che più di tutte abita il tuo cuore.
Questa è una domanda difficile. Perché è come se ti chiedessero: è più bella una donna bruna o una donna bionda? È una domanda a cui non riesco mai a dare una risposta. Se però devo essere messo alle strette allora io credo che la Bohème di Puccini è quella che tocca di più il mio cuore da sempre.
Il tuo colore preferito?
Non ho colori preferiti. Ma quello che mi ispira di più e mi da più energia è il rosso.
Il tuo numero portafortuna?
Non ho mai avuto numeri fortunati. Come dice Fantozzi: il 180!
La prima cosa che pensi associata alla parola “Passione”?
Istinto.
Come dovrebbe essere la tua casa delle favole nella quale abitare?
Io l’ho appena comprata a Milano una casa delle favole. Anche se Milano può essere amata o odiata per me è una città che amo ardentemente. Però nel futuro mi vedo, quando probabilmente avrò finito tutto quello che avrò da dire, in una piccola casa di legno sull’isola di Ljustero nell’arcipelago della Svezia.
Nel tuo guardaroba non devono mai mancare...
Le camicie. Anche le più eccentriche.
Sei felice?
Immensamente.
La tua più grande paura?
Quella di cambiare quello che sono a livello personale. Ma non succederà mai.
Come ti vedi tra 10 anni?
Uguale a adesso. Più soddisfatto, più contento di me, più conscio di aver dato agli altri tutto ciò che posso dare e spero giovanile come lo sono adesso.
Arredamento: classico, rustico, moderno o...?
Classico. Come sono io nella testa.
Tre oggetti dai quali non ti separeresti mai.
La mia prima bacchetta che mi accompagna nelle mie avventure dal 1996. La mia moto. La foto del mio papà che non c’è più.
Il tuo cartoon preferito?
Willy il coyote. Un genio assoluto!
Una città dove ti piacerebbe avere una piccola dependance, un piccolo appartamento.
Senza dubbio nelle campagne a sud di Londra.
Il tuo piatto italiano preferito?
Spaghetti, pomodoro e basilico.
Il tuo piatto estero?
La zuppa di gulasch ungherese. Un po’ piccantina. Anche se a me non piace tanto il piccante.
Un personaggio a cui daresti il Nobel?
Riccardo Muti
Se fossi una delle quattro stagioni?
Assolutamente l'autunno!
La cosa che odi di più nelle persone?
Può sembrare un luogo comune ma siamo circondati di persone che fanno una faccia con te e ne fanno un’altra con gli altri. La doppia faccia. Io penso che in ambito lavorativo, un certo tipo di allure e di atteggiamento, quella che io chiamo “maschera” bisogna averla per non mettere a nudo completamente se stessi. Ma l’ipocrisia e il cinismo di certe persone che ti sorridono e poi ti pugnalano, beh questo non l’ho mai sopportato.
Da bambino cosa avresti voluto fare da grande?
Incredibile: il tranviere o il tennista. A Milano abbiamo dei tram bellissimi e vecchissimi. Tra l’altro alcuni di questi tram sono stati donati alla città di San Francisco. Quando ero bambino salivo a caso – “random” – sui tram di Milano per vedere dove mi portavano. E mi faceva impazzire osservare i tramvieri manovrare per passare da un binario all’altro.
Se fossi uno strumento musicale?
Il violoncello. Può cantare come un soprano o come un basso e su certi registri rievoca anche la voce umana.
Se fossi un animale?
Gli animali sono l’espressione della meraviglia della natura. Non provano odio, non provano senso di vendetta. Seguono il loro istinto. E in certi casi danno all’uomo tutto l’amore che possono dare. Sarei un cane.
Quanto conta l'amore per te?
L’amore ha diverse sfaccettature. Io l’amore per una donna non l’ho ancora trovato. Ho avuto diversi amori, ma sono diversi anni che, un po’ complice la mia iperattività, mi ha un po’ distratto da questo aspetto. L’amore per il nostro mondo, per la nostra vita, per una donna, per gli amici, per i bambini è ovviamente il nostro scopo di vita, come esseri viventi.
Un epoca storica nella quale ti sarebbe piaciuto abitare.
Molto difficile da viverci ma sicuramente il ‘500 inglese. Periodo di rivoluzione culturale, ideologica e storica che mi ha sempre affascinato.
Il tempo passa e porta via con sè tante cose. Ma che cos’è veramente che non va mai fuori moda?
L’arte non và mai fuori moda. Anche se a volte è visto come un cliché un po’ démodé, un po’ di nicchia, un po’ di altri tempi. Forse non ce ne accorgiamo ma l’arte fa parte della nostra quotidianità.
Arrivi ad una festa. La sala è gremita di persone. Qual è la persona che attira di più la tua attenzione?
Intanto una bella donna. Ma oltre all’abito o all’acconciatura mi attira la persona solitaria. Quella che non si uniforma alle altre. Quella che scambiando due parole cattura da subito la mia attenzione.
Delle persone con le quali hai lavorato, il personaggio maschile e quello femminile che ti hanno colpito in particolar modo e perché.
La persona che persona che più mi ha impressionato da un punto di vista professionale, umano, etico e anche deontologico è stata il soprano Mariella Devia. Abbiamo fatto un concerto insieme al Carlo Felice di Genova.
Raccontaci un aneddoto curioso, qualcosa che ti è capitato nel tuo lavoro.
Una cosa che fa tremare il polso a tutti i direttori di orchestra. Non dico in quale teatro (…) ma stavo dirigendo un’opera lirica. La bacchetta rimbalza sul dito indice della mano sinistra e rotola in fondo all’orchestra. La cosa curiosa è stata che, un po’ come nel domino, i professori d’orchestra, dal fondo della buca fino ad arrivare a me, si sono passati la bacchetta e me l’hanno restituita.
Il tuo sogno nel cassetto?
Mantenere questo entusiasmo, questa prospettiva di vita, questa felicità e questo senso di soddisfazione che ho anche nel futuro.
Cosa è la vera felicità?
Può anche questo essere un luogo comune: essere conscio dei propri limiti e accettare il massimo che tu puoi dare a te stesso nella vita.
Cosa è la vera bellezza?
Gli occhi di un bambino.
Che messaggio daresti a tutti quei giovani che vorrebbero diventare dei grandi direttori d’orchestra?
Una volta Herbert von Karajan disse: “Io non faccio il direttore di orchestra. Io sono un direttore d’orchestra” può sembrare un po’ presuntuosa come affermazione, ma ne sono assolutamente conscio. Lo dico pure io: un conto è essere un musicista un conto è fare il musicista.
La direzione d’orchestra è una disciplina molto difficile. Perché deve contemplare diversi fattori.
Per esempio una persona che suona uno strumento musicale deve mettere in campo la bravura tecnica, la correttezza stilistica, l’interpretazione e anche soprattutto la sua natura musicale.
Il direttore d’orchestra è colui che guida un certo numero di persone.
Per cui oltre al talento, chiarezza del gesto e di idee, preparazione assoluta, ci vuole anche quel pizzico di autorità - che non deve essere autoritarismo - che è proprio di un leader. Anche la facilità di plasmare le idee altrui facendole proprie.
Da un punto di vista pratico la carriera di un direttore d’orchestra è una carriera molto lunga e difficile che deve essere costruita attraverso una lunghissima gavetta. Karajan diceva sempre che il direttore d’orchestra è un “facharbeiter“, cioè un operaio specializzato, che ha bisogno, come minimo di venti anni di specializzazione. Al giorno d’oggi è un po’ anacronistica una cosa del genere, perché se decidi di diventare direttore d’orchestra a 30 anni non puoi iniziare la carriera a 50: è troppo tardi. Però il concetto calza. Nel senso che l’esperienza sul campo, anche attraverso le sconfitte, serve a forgiarti come uomo e come musicista. Da un punto di vista professionale bisogna crederci e dedicarsi solo a questa disciplina. E poi: perseverare, perseverare, perseverare! E un pizzico di fortuna.
Sardinia Fashion
04/04/2016