Antonio Rovaldi - Micaela Deiana
A SPASSO NEL TEMPO

Michael Höpfner - Hamish Fulton - Antonio Rovaldi
Quando il cammino diventa Arte, tra pratica estetica e necessità ancestrale. Nelle sale del MAN per indagare sul tempo, lo spazio, l’uomo e l’ambiente.

Nasciamo per muoverci, per stabilire contatti. Anche e soprattutto con la terra che ci sta sotto ai piedi. La terra come territorio del pensiero, del cammino e dell’arte. Il cammino come atto politico. Il ritorno alla terra come rifiuto di una realtà virtuale costruita davanti al monitor di un computer o di uno smartphone. Il cammino come pratica estetica o come atto sacro. Francesco Careri chiamato a coordinare e introdurre l’incontro nelle sale MAN LAB (sede dei laboratori didattici del museo MAN), è professore presso la Facoltà di Architettura di Roma tre.

Francesco Careri
Autore di Walkscapes, un libro fondamentale pubblicato in Italia nel 2006 che, a partire dalla preistoria, indaga sul rapporto del cammino non solo come necessità quotidiana del muoversi ma il camminare come pratica estetica. «Quello che sta scritto su quel libro è nato in Sardegna. La sensazione che camminare è un atto sacro in qualche modo.
Francesco Careri
È un modo per entrare in contatto e stare vicino a quello che cerca di dirci madre terra. Credo che in Sardegna la terra parli con un volume altissimo. Oggi raccontavo a Hamish e Michael che qui, a Laconi, esattamente a Perda 'e Iddocca ho capito che l’architettura nasce nomade. Sono stati i pastori erranti e chi cammina attraverso il territorio a inventare l’architettura e non chi ha deciso di fermarsi nei villaggi per stare e ha costruito tutto quello che poi si dice architettura. L’architettura nasce davvero con l’alzare delle prime pietre per rendere simbolico e cambiare il valore estetico, etico e politico di un luogo. Per segnare quel luogo, perché da quel momento in poi quel luogo sarà un altro. Nel momento in cui io alzo una pietra, quella che riesco a sollevare con la forza del mio corpo, a quel punto ho cambiato per sempre questo posto e gli posso dare un nome. A Perda 'e Iddocca c’è un valico dove ci sono cinque Menhir. Due da una parte della valle, altri due dall’altra e poi ce n’è uno piccolino al centro. Li ho visto passare un pastore con un gregge e ho pensato: quanti migliaia di anni è che succede questa cosa? Succede probabilmente tutti i giorni da cinquemila anni o forse più. E ho capito che quei Menhir non erano stati messi da qualcuno dei villaggi ma dai pastori che passavano li. E che quel luogo è diventato quel luogo perché inventato dai pastori. E proprio oggi parlando con uno di loro ho affrontato l’argomento del tempo, di quello che, secondo lui, da un certo momento in poi, è diventato sempre più veloce, quasi inafferrabile. Mi piacerebbe affrontare con voi proprio questo tema: il tema del tempo».

Michael Höpfner
Il primo intervento dopo l’introduzione di Careri è quello di Michael Höpfner artista austriaco cha avevamo già imparato a conoscere un anno fa, sempre all’interno del MAN insieme ad Alessandro Biggio, nel progetto Braccia: «Può essere facile per un artista romanticizzare l’idea del tempo pensando che prima dell’avvento dell’industria tutto fosse più bello. In realtà proprio qui in Sardegna è vero che la vita era qualcosa di molto diverso, ma era anche una vita più dura. In Europa, dopo la rivoluzione industriale, il tempo ha iniziato a essere una linea dritta, percepito come qualcosa che andava verso una direzione, mentre prima si percepiva come un cerchio: il tempo come la vita. E questo è molto affascinante per un artista, anche in questo caso bisogna stare attenti a non romanticizzare questa idea, ma comunque resta il fatto che ci sono molti modi per guardare al tempo».

Lorenzo Giusti: «Le mostre che stiamo per inaugurare, sia dal punto di vista delle tematiche affrontate, sia per l'utilizzo di determinate pratiche artistiche, sono strettamente legate tra loro. La fotografia è uno dei mezzi maggiormente utilizzati, ma a questa si uniscono anche altri linguaggi, come, ad esempio nella mostra di Antonio Rovaldi, la scultura, il collage, il suono. Vorrei chiedere proprio ad Antonio come l'elemento temporale, di cui ha parlato Francesco Careri, entra nella sua opera»

Antonio Rovaldi
«Premetto che a differenza di quanto accaduto per Michael e Hamish dove il loro era un procedere all’interno della Sardegna a piedi, il mio è un viaggio, iniziato nel 2011, attraverso l’Italia intera. Da Ventimiglia a Trieste per poi concludersi in Sardegna a giugno del 2014. Tutto fatto in bici. E nasce da un idea di perimetro.
Civil Servants
Insieme alle foto che vedrete in mostra, che sono una parte di quelle che troverete anche nel mio libro, Orizzonte in Italia, ci sarà ad accompagnarle un'installazione sonora che per me rappresenta un lavoro nuovo sul quale non mi ero, sino a oggi, ancora cimentato. E sono delle vere e proprie registrazioni dell’ambiente, per testimoniare un certo tipo di oralità del paesaggio che si contrappone invece a un'idea di mappatura del territorio più disegnata».

«Guardando le tue foto» - osserva Careri - «si ha come la sensazione di stare su una nave, piuttosto che sulle coste di una penisola. Tu rivolgi il tuo obiettivo e quindi il tuo sguardo sempre verso l’orizzonte dando le spalle all’entroterra».
«Naturalmente i livelli di lettura che si posso avere sono molto diversi», risponde Rovaldi, «anche rispetto al lavoro di Hamish o Michael che hanno fatto degli attraversamenti molto empatici col territorio. Nel mio progetto ho mostrato un'Italia che in realtà non c’è. Nel senso che ho focalizzato il mio sguardo lungo una linea di orizzonte e sempre e comunque parziale, in un percorso decisamente autobiografico. Il territorio, l’entroterra c’è ma è quello che nelle foto non compare mai, è quello con il quale mi sono dovuto necessariamente confrontare come con le persone, anche semplicemente per chiedere informazioni su una strada».
In tempi di fotografia digitale Antonio Rovaldi ha scelto, come mezzo fotografico, una “vecchia” macchina a pellicola. «Cambiare tutti i giorni diverse pellicole, il fatto che la pellicola quando la monti, su una macchina fotografica, si distende, in qualche modo il frame rappresenta la restituzione di uno spazio visivo che hai davanti a te. È come se la distanza delle singole immagini si traducesse nella pellicola stessa. Probabilmente se avessi fatto questo lavoro in digitale sarebbe stato tutto molto diverso».

Pier Luigi Tazzi
Pier Luigi Tazzi, ritorna al MAN dopo dieci anni. Nel 2005 curò la mostra (IN)VISIBILE (IN)CORPOREO, e nel nuovo libro di Antonio Rovaldi troviamo anche un suo contributo.
Riccardo Fadda
«Vorrei spiegare come ho sviluppato il mio testo sull’opera di Antonio», spiega Tazzi, «e si riferisce a qualcosa che mi era stato indicato da Michael e da Hamish sul tempo. Innanzitutto il suo nome non compare mai. Il testo è stato composto in due viaggi: uno dal sud-est al nord-est della Thailandia, e l’altro da sud-est – dove abito – a sud. Non a piedi, non in bicicletta ma in macchina. Io non guido avevo uno che lo faceva per me. Avevo già visto il progetto di Antonio - Orizzonte in Italia - presentato a Roma alla Galleria Monitor. Quindi avevo di fronte a me questa cosa, oltre al paesaggio che vedevo dal finestrino e il tempo. Questa situazione di viaggio mi invitava a ricordare. Quindi il mio testo non è altro che un insieme di ricordi legati al mare – visto che il suo tema fondamentale è la linea del mare – messo insieme al viaggio e alla memoria. Così il tempo, in qualche modo, interferisce nel viaggio e nella memoria sollecitata dal paesaggio e mossa dal mio spostamento fisico in questi luoghi». Su Hamish Fulton, il professore e curatore toscano, va alle origini del suo percorso artistico: «Quando viene fuori Fulton? Perché la sua arte, in qualche modo, ha avuto una legittimazione? In quale contesto questa cosa è nata? Durante tutti gli anni sessanta si consuma, fortunatamente, un processo che riguarda tutta l’arte occidentale, che è quello di concretizzazione dell’opera d’arte. Sino agli anni sessanta, un’opera d’arte era stata un’immagine della mente o un oggetto prezioso. Non aveva luogo. Negli anni sessanta questa situazione asfittica, in cui l’arte non ha luogo, comincia a essere messa in discussione dagli artisti stessi. In prima cosa abbandonando il museo e poi occupando dei luoghi precisi. Creando dei luoghi concreti in cui l’arte si veniva a manifestare. Il primo per eccellenza è la galleria commerciale. Sino ad allora le gallerie erano una sorta di outlet: non erano dei luoghi dove l’arte nasceva. E li, che per la prima volta, l’opera d’arte viene alla luce del mondo. Poi una volta acquisita dal museo ritorna al suo vecchio stato: essere la reliquia di qualche cosa che però in effetti si è dato.
MAN Nuoro
Contro il museo nascono altre importanti istituzioni: una è il museo senza collezioni, quindi non c’è da conservare, c’è da manifestare quello che avviene in quel momento nell’arte e poi la grande mostra temporanea. Un altro posto è quello degli spazi alternativi in cui viene accolta un certo tipo di arte che il museo, o una galleria, non potevano accogliere. Perlopiù si tratta di performance o di video. Un tentativo di concretizzazione molto potente. Un po’ quello che avviene anche negli Stati Uniti, per fare un esempio, con la Minimal-Art, in cui l’oggetto minimale entra in relazione diretta con lo spazio che lo accoglie. Non ha significati simbolici o allegorici narrativi ma soltanto la sua relazione con il luogo in cui si trova. A partire dalla realtà americana cominciano anche in Italia a nascere situazioni in cui si cerca di uscire dal dentro, che non è soltanto il dentro del museo. Si cerca di entrare nel mondo. Ci saranno delle manifestazioni estremamente formali come la Land Art. E proprio su questa ispirazione a stare fuori, a porsi fuori, vedo nell’arte di Hamish Fulton il tentativo di mettersi fuori, di provare il mondo fuori. Come dicevo anche a lui oggi durante la pausa pranzo; si tratta di non lasciare il tuo marchio sul fango del mondo ma di provare attraverso la tua azione, di sentire il mondo».

Eleonora Di Marino
Hamish Fulton
Hamish Fulton, artista inglese – “Walking Artist” come lui stesso ama definirsi - che ha percorso a piedi l’entroterra sardo per due intere settimane e che può essere considerato uno dei padri fondatori di questa forma d’arte legata al cammino, aggiunge: «La pratica del camminare tocca diverse tematiche. La mostra che inaugura oggi al piano terra del MAN che è di carattere ambientale ne è la dimostrazione. E questo ci fa capire come tutti questi temi siano in qualche modo collegati. Tutto questo può esistere solo se esiste un ambiente che viene tutelato».

Una natura che non è soltanto incontaminata come quella raccontata da Höpfner e Fulton in Canto di Strada o quella di Rovaldi in Mi è scesa una nuvola, ma molto spesso è una natura ferita, offesa, sciupata quando ancora non devastata dalla mano dell’uomo.
Micaela Deiana
Micaela Deiana
Al piano terra Civil Servants, la mostra collettiva curata da Micaela Deiana, in una sorta di rise-and-fall, poco psichedelico e molto di denuncia, di alcune delle più conosciute aree industriali della Sardegna, dagli anni sessanta e settanta a oggi, attraverso il racconto, l’opera e le azioni di quattro artisti - Riccardo Fadda, Leonardo Boscani, Pasquale Bassu e Eleonora Di Marino - affronta il delicato tema sugli effetti di occupazione e sfruttamento del suolo. Ecco che allora il camminare diventa atto politico.
Pasquale Bassu
«La mostra analizza la questione della relazione tra uomo-natura, uomo-ambiente», sottolinea Micaela, «però portandolo sul campo del sociale. Se con i lavori offerti da Michael, Hamish e Antonio abbiamo il corpo individuale che si relaziona con il tempo e con lo spazio, in questo caso abbiamo il corpo sociale». Dai velenosissimi fanghi rossi, carichi di piombo e zinco, nelle miniere del Sulcis raccontati dalla Di Marino, alle archeologie inaccessibili di Anarcheology, dell’area petrolchimica di proprietà dell’Eni nella Nurra visitate da Fadda. Dallo Studio di fattibilità per l’allevamento del cervo semibrado nel territorio di Monte Rosè di Boscani di Boscani, in parallelo agli interventi di bonifica dell’industria chimica nell’area di Porto Torres alla performance Io sono stato di Bassu
Micaela Deiana
che, seduto all’ingresso della sala della mostra, invita i visitatori a stipulare un particolare contratto: prendendosi cura di una pianta, di un’animale, o anche di se stessi, in cambio si riceve una banconota incisa dall’artista con sopra la rappresentazione di alcune delle aree industriali più conosciute del centro Sardegna. Francesco Careri che da vent’anni porta i suoi studenti universitari in “transurbanza” a Roma, a fare lezioni sul campo, all’aperto, tra fabbriche abbandonate e binari ferroviari, conclude l’incontro: «Quello che vedrete all’ultimo piano del MAN, il lavoro di Michael e Hamish, è qualcosa di non immediato. Ci vuole un po’ per entrare a capire. Perché è un linguaggio molto asciutto, molto sintetico. In quella parete percorsa da una linea, in quelle foto, nella loro opera sentirete quel tempo. Il tempo passato in due settimane ad attraversare paesaggi e i monti dormendo dentro a una piccola tenda. Avete mai provato a farlo? A capire come procurarsi da bere. A sentire sul vostro corpo la fatica e le emozioni di quegli istanti?».

SORDO E CIECO PER LE STRADE DI NEW YORK
Antonio Rovaldi
Antonio Rovaldi lo avevamo lasciato l’estate scorsa nella sua mostra-progetto Orizzonte in Italia all’interno de L’Isola Delle Storie a Gavoi. Ci eravamo salutati con «Ci rivedremo al MAN a febbraio»: è così è stato. Se nella prima tappa al Mueso Comunale di Gavoi, Rovaldi, raccontava in immagini il suo personale viaggio in bicicletta nella costa peninsulare italiana «da nord a sud e poi ancora da sud a nord, a risalire», qui al MAN conclude con lo stesso viaggio ma compiuto lungo le coste sarde. E non si tratta solo di un fotografare la linea dell’orizzonte, da confine a confine, ma è un vero e proprio laboratorio di esperienze anche sensoriali dove il ritmo delle immagini è dettato anche dal ritmo del cuore, dal fiato e dalla fatica fisica. All’interno di una delle sale del MAN scopriamo un video in bianco e nero girato a New York: Shorakapok, The Place Between The Ridges, una sorta di esperimento davvero molto interessante. «È un video che documenta un’azione a tutti gli effetti performativa che ho fatto insieme a Michael Höpfner», ci spiega Antonio, entrando nel dettaglio. «Ci siamo incontrati nel 2009 durante una residenza a New York all’interno degli ISCP Art Studio di Brooklyn. Ho chiesto a lui un lavoro insieme sul camminare attraversando Manhattan a piedi e da Wall Street a Inwood Park: lui senza vedere e io senza sentire. Questo perché? Perché l’idea di attraversare una metropoli come New York, attraversare Manhattan, satura di volumi e priva ormai di spazi vuoti, rappresenterà il raggiungimento di uno degli ultimi spazi verdi che è la fine della città. Siamo partiti alle nove del mattino e, in cinque ore e mezza, io isolato completamente dai rumori esterni con una grossa cuffia audio nelle orecchie e lui completamente bendato, siamo arriva a Inwood Park. In questo modo, eliminando lui la vista e io l’udito, è stato come riappropriarsi di una distanza attraverso una città satura di immagini, suoni, colori e odori. È stata anche una prova fisica di resistenza dove uno si doveva affidare e fidare dell’altro. L’anno successivo, nel 2010, attraverso Lorenzo Giusti, abbiamo fatto una mostra a Prato e fu proprio in quell’occasione che Lorenzo conobbe Michael Höpfner, e oggi siamo qui al MAN, nuovamente insieme».

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