L'ELICA E LA LUCE
Il lato rosa del Futurismo
ARTE
Dalle tavole tattili alla fotografia, dalle tempere a incastro ai cortometraggi e la scultura. Come un romanzo, al MAN di Nuoro, per conoscere chi erano le donne dietro alla più misogina delle avanguardie artistiche del ‘900
Febbraio 1909. La Gazzetta dell’Emilia di Bologna in Italia e Le Figaro in Francia pubblicano per la prima volta il Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti. Non ci sono dubbi, è tutto scritto nero su bianco: il Futurismo è un movimento muscolare, maschio, che esalta il nazionalismo, la velocità e la guerra - “sola igiene del mondo” - e mette all’indice le donne.
Ma era davvero così? Dove stavano queste donne? Chi erano queste madri, queste artiste, queste compagne di vita e di passioni?
Il MAN di Nuoro cerca di dare risposta a queste, e a tante altre domande, con una mostra affascinante tutta al femminile, a partire dalle sue curatrici: Chiara Gatti e Raffaella Resch.
Ben ritrovata Raffaella Resch. Dopo gli onirici “Mondi animati” di Paul Klee del 2015, ti incontriamo nuovamente,
qui al MAN per questa mostra sul Futurismo: L’Elica e la Luce.
«Intanto grazie a tutti voi, perché avete dimostrato di credere in progetti di ricerca che potevano sembrare difficili e coraggiosi.
Questa nasce come una mostra che intende colmare un vuoto su una storiografia futurista che è stata frammentaria;
in questo allestimento finalmente riusciamo a radunare 26 figure di donne in più di 100 opere.
Si tratta di opere che sono state esposte nelle biennali, e nelle principali mostre del periodo, pubblicate nelle riviste
dell’epoca gestite dalle stesse autrici. Sentiamo il dovere di ringraziare anche i collezionisti che hanno collaborato,
rendendoci disponibili queste opere che lo Stato italiano solo molto di rado ha pensato di esporre al pubblico».
Che impronta avete voluto dare a questa mostra del MAN?
«In primo luogo c’erano delle contraddizioni sottese al futurismo.
Qui si parte dal futurismo in cui la donna è intesa come un essere da disprezzare.
Poi però si nota un’ampia partecipazione da parte delle donne, che non è documentata nelle maggiori mostre dedicate a questo movimento artistico. Soltanto alcune di loro, come ad esempio Benedetta Cappa, Marisa Mori o Leandra Cominazzini Angelucci, hanno potuto essere rappresentate all’interno di mostre “maschili” del movimento intero, oppure avere l’onore di essere presentate in piccole mostre.
Abbiamo pensato che proprio questo fosse un argomento da proporre. L'allora direttore del Man, Lorenzo Giusti, appoggiò questa decisione. Abbiamo pensato di creare una mostra corale, cioè inserendo più donne possibili. All’interno del Futurismo si sono delineate delle situazioni regionali:
i futuristi veneziani, quelli che lavorano in Sicilia, a Roma, a Torino, ognuno segue il proprio Manifesto ed esercita le proprie linee di ricerca.
All’interno di ogni gruppo sono presenti donne che lavorano seguendo il proprio obiettivo, ma al contrario degli uomini secondo noi, riescono davvero a realizzare l’arte totale, cioè a esprimersi con diversi mezzi: come Marisa Mori per esempio, che realizza la scultura del plastico dell’Isola d’Elba, ma anche il dipinto e i bozzetti in funzione di un film, che poi non riuscirà mai a fare. Lei è anche una fotografa.
Benedetta Cappa inventerà le tavole tattili, perché il Manifesto del tattilismo è firmato dal marito - Filippo Tommaso Marinetti - il quale dirà che è lei che lo ha ispirato e scriverà poi in un articolo che era proprio lei, Benedetta, ad avere queste idee. Regina Cassolo Bracchi sarà la prima ad utilizzare l’alluminio, ritagliandolo e creando sculture modernissime.
Anche quando fanno cose che solitamente facevano gli uomini, come l’aeropittura, le donne interpretano le opere con tutto il proprio corpo. Barbara Olga Biglieri sosteneva di essere un tutt’uno
con il quadro Vomito dall’aereo perché, pur amando volare, registra questa reazione corporea che padroneggia.
Non si lascia andare all’abbandono dei sensi. Le artiste sono sempre lucide e razionali.
Ci siamo innamorate di tutte queste donne a tal punto che se avessimo potuto avremmo incluso ancora più opere».
È la donna che ispira il compagno, l’uomo, oppure esiste una commistione nelle opere?
«Diciamo che collaboravano. Per esempio nel caso del film Velocità, i due torinesi Martina e Cordero sono compagni nella vita e realizzano insieme le opere, sceneggiature, libri, si interessano di cinema. Non abbiamo elementi per dire se uno ha guidato l’altro.
Un’altra celebre coppia è quella che si formò tra Benedetta Cappa e Filippo Tommaso Marinetti. Nonostante la fama di grande seduttore Marinetti scelse di fermarsi con questa donna. Aveva vent’anni meno di lui».
In seguito a questo grande lavoro di ricerca, hai un’opera preferita, più rappresentativa per te?
«Non ci ho mai pensato. Ma se proprio devo indicartene qualcuna allora ti dico che a me piacciono tantissimo le tele di Benedetta Cappa di cui abbiamo esposto i bozzetti. Sono delle tempere a incastro, che lei realizza per una commissione pubblica nel 1933 al Palazzo delle Poste di Palermo, un edificio imponente dove ci sono i contributi suoi e di Brunas. Benedetta realizza tende di tante diverse personalità. Quelle, secondo me, sono dei capolavori monumentali assoluti. Poi mi piace la tavola di Regina, Il Paese del Cieco, che qui è esposta in una saletta con i documenti preparatori da cui si capisce la nascita dell’idea».
L’Elica e la Luce: chi sono?
«Abbiamo a lungo dibattuto sul nome della mostra. Io ero per un titolo asciutto, un gioco di parole. Ci sarebbe piaciuto “L’altra metà del Futurismo”
per riecheggiare appunto il libro di Lea Vergine che ha parlato delle avanguardie mondiali futuriste.
Chiara, che è una persona che sa comunicare molto bene, pensava invece all’elica e alla luce come sostantivi.
Dal mio punto di vista è una sorta di risarcimento alle due figlie di Giacomo Balla che sono forse le donne più tradizionali del Futurismo,
quelle che non sono riuscite a trovare una loro dimensione. Trascorrono tutta la vita a ridisegnare i capolavori del padre, a rendere ancora più grande il mito della sua pittura».
Qual è stata la difficoltà più grande nel preparare questa mostra e come l’avete affrontata?
«Dal mio punto di vista, l’incredulità che ancora queste cose si sapessero così poco.
Nonostante siano state pubblicate opere dalla fine degli anni ‘70 sulle avanguardie femminili e anche sulle donne futuriste, in realtà un’opera corale non era ancora stata fatta.
Allora abbiamo pensato ai rischi connessi, ai pasticci che sarebbero derivati dal mettere insieme tante opere così diverse tra loro.
Ad esempio quella della designer siciliana Rosita Loiacono. Si tratta di bozzetti che uno dice “Ma questo non è Futurismo”, invece sì, lei era una futurista.
Un’altra ancora: Adele Gloria, anche lei grandissima poetessa, pittrice e aeropittrice, tutte storie favolose.
A un certo punto mi sono detta: “Come è possibile che nessuno le ha raccontate fino a qui, o se l’ha fatto, quando? E se è stato fatto, perché in maniera così parziale?”
Ci siamo rese conto che il Futurismo ha subito due rimozioni critiche: quella di essere stato dimenticato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale perché era “arte di regime” e quindi anche la valutazione estetica è stata difficile per un'arte che aveva avuto così tanto successo sotto il Fascismo. L’altra rimozione è avvenuta nei confronti delle donne, una rimozione di genere che attraversa un po’ tutta la nostra civiltà.
Abbiamo esaminato tutti questi elementi, anche perché non è che si volesse cavalcare “la tigre” dei diritti delle donne. Qui si parla di arte e di un periodo preciso: di quello che è accaduto nel Futurismo.
Si parla di cose vere, senza propaganda, senza clamori anche se, secondo alcuni servizi televisivi, noi abbiamo inaugurato l’8 marzo perché era la Festa della Donna».
Chiara Gatti, anche per te un gradito ritorno qui al MAN dopo la straordinaria mostra, del 2014, “A un passo dal Tempo” su Alberto Giacometti.
Qual’è il percorso che avete voluto suggerire, la chiave di lettura, per scoprire questa nuova mostra?
«Possiamo sicuramente dire che è come un grande romanzo, che va letto dal primo piano al terzo. Un romanzo che cresce, che sale e che, in un certo senso, emoziona molto. Parte con la grande guerra, e attraversa trent’anni di ricerca in cui queste donne straordinarie hanno acquisito un’identità fortissima».
Hai un’opera a cui sei affezionata o che per te rappresenta qualcosa di speciale?
«Vieni con me… Ecco: I sette peccati capitali. Mi piace perché introduce la mostra e il discorso legato alla prima di questa donne, Adriana Bisi Fabbri che era la cugina di Boccioni e che ha recepito, proprio da lui, tutta l’influenza del vero Futurismo e poi l’ha manifestato per prima;
erano gli anni del primo Manifesto. Lei è una donna tardo ottocentesca però è la prima grande donna di questa serie, a me piace molto».
Avete dubbi o timori nei confronti della reazione del pubblico che vedrà la mostra?
«Il dubbio è quello che, quando si pensa al Futurismo, tutti pensano sempre ai maschi, al machismo, al sessismo e alla misoginia.
La sfida, quindi, era quello di spiegare che queste donne hanno fatto parte di questo movimento, hanno firmato i manifesti e che c’era un legame con questi uomini.
Un legame che ribalta le sorti e anche il luogo comune. È
vero che il Manifesto affermava che la donna era un essere inferiore, che assolutamente non bisognava valorizzare.
È anche vero però che si riferiva ad un modello di donna, quella ottocentesca, che faceva parte di un’altra epoca.
Le donne rispondono che anche loro sono pronte per la modernità, anche loro hanno un’identità forte che può essere rivoluzionaria».
C’è un tratto di originalità nelle opere delle artisti femminili?
«Beh sicuramente il tema del corpo, che loro affrontano attraverso tutto quello che è il lavoro sul teatro, sulla scena, sulla danza e sulla coreografia.
Tutto quel lavoro è prettamente femminile. Lì puoi ritrovare il corpo fisico con tutta la sua sensualità. Ne è un esempio Il lavoro che fa Giannina Censi con la danza».
C’è invece, secondo te, un’influenza delle donne nei confronti degli uomini o delle donne Futuriste o viceversa?
«Degli uomini sicuramente sì dal punto di vista figurativo. Perché Balla e Boccioni sono stati i maestri per eccellenza.
Benedetta Cappa lavorava nello studio di Balla, Boccioni ha influenzato Adriana Bisi Fabbri.
Ma ha anche influenzato tutte perché alla fine Boccioni è stato il maestro teorico di tutto il Futurismo.
Che fosse maschio o femmina. Che gli uomini si siano lasciati influenzare dalle donne è più difficile, perché erano troppo
pieni di sé. Però è anche vero che, per esempio, Balla affidava i famosi arazzi alle figlie che avevano delle mani meravigliose, per cui in un certo senso possiamo
dire che lui si è fidato ciecamente. Anche Marinetti è molto dipendente da Benedetta. Ne era anche un po’ spaventato secondo me» (ride).
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14/05/2018