VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA
CALA GONONE JAZZ FESTIVAL
Hanno reso visibile l’invisibile. Hanno scritto su pentagramma la voce della pietra per portare sul palco l’ultima delle più romantiche avanguardie: far cantare la terra sulle note di un piano.
Se il libro della Genesi fosse un film probabilmente la colonna sonora verrebbe scritta da Leszek Mozdzer, Gloria Campaner e Pinuccio Sciola.
Chi ha avuto il privilegio di ascoltarli dal vivo, durante il Cala Gonone Jazz Festival, sa di cosa parlo.
E a saperlo non sono le orecchie, no, troppo spesso sorde e insensibili, intossicate dai rumori di fondo del nulla.
A saperlo è il cuore di chi su quelle note si è fatto trasportare sulle ali di un sogno.
Per noi catafratti nelle nostre armature di latta, quelle note, quei suoni, sono il trapano che risveglia il bambino assopito:
un biglietto di sola andata negli abissi dell’anima.
Viaggio nel centro della terra.
Jazz, classica e elettronica? No, buttate all’aria tutte le etichette, liberatevi dalle pastoie delle vostre sovrastrutture mentali.
Uscite da quel teatro nella sua forma più pura e disadorna, volate via da quella poltrona.
Siamo in mezzo alla foresta a riscoprire il gusto e la vertigine dello smarrimento.
Siamo sul bordo di un precipizio pronti a volare.
Facciamoci rigare la faccia dalla pioggia, il naso dall’odore della terra bagnata, sporchiamoci i piedi e le mani.
E poi, apriamo gli occhi di nuovo.
Una donna, di un eleganza senza tempo, apre le braccia davanti ai suoni liquidi delle pietre di Sciola.
Ha gli occhi bagnati e respira con le narici spalancate.
Quei suoni hanno odori, sono onde che si infrangono sul suo petto: Nirvana per l’anima.
La scintilla del genio polacco parte all’improvviso: Mozdzer è un elfo.
I suoi tessuti si sono bagnati da tempo di foreste e odori selvatici.
Campiona suoni come sgocciolature di colore profuse su una tela bianca.
Le sue dita scorrono come acqua su una foglia di loto.
L’affresco che si apre di fronte a noi ha la complessità e il mistero sempitèrno di antiche formule alchemiche.
Gloria da le spalle a Leszek che, dal piano, è passato al sintetizzatore elettronico.
La musica si fa colonna sonora, atmosfera rarefatta.
È un gioco di scambi e variazioni di ritmo, persino quando passano dalle tastiere alle pietre, dalle pietre di nuovo al piano.
In fila come bambini pronti al controcanto, Sciola fa parlare le sue sculture.
La voce della terra, riversandosi liquida sui suoni delle corde del piano, si fa più forte.
Cosa c’è di più jazz e di più classico di una pietra?
In questa jam session l’istinto primeggia sulle regole, l’artigianato sulla serialità:
come il fabbro addolora il metallo, così questa musica forgia l’anima.
Arriva l’epilogo.
Pinuccio Sciola è quasi in uno stato di catarsi quando la Campaner continua ad assecondare, al piano, il suo intercedere tra quei suoni millenari.
Non c’è soluzione di continuità neanche quando sembra che il concerto stia per concludersi:
la pietra continua a vibrare come a chiedere che la gente non abbandoni questo incanto.
E il pubblico applaude, applaude con forza, mentre il sipario su questa fiaba si chiude.
La donna elegantissima che poco prima respirava quei suoni, fuori dal teatro, ferma il coboldo di San Sperate:
«Maestro Sciola, vorrei che la musica delle sue pietre potesse risuonare in tutte le orchestre del mondo».
La dama scompare. La magia si è compiuta.
Sardinia Fashion
21/09/2015